Paolo Gubinelli

Scrivere brevemente di Paolo Gubinelli non è facile, oggi che quasi quattro decenni sono trascorsi dacché una critica sceltissima, su di lui singolarmente attenta (e direi concentrata sulla sua pittura, invece che – come spesso avviene – ondivaga, e succube talvolta della propria verbosità) s’è esercitata a enumerane i passi e a dirne le ragioni con lucidità, non disgiunta da uno slancio interpretativo raro. Non è facile dire di quest’opera fatta di carta,  solo di carta (se s’accantonino per un attimo le recenti ceramiche, e qualche altra più antica eccezione), ma della quale è stato già correttamente supposto una volta (Trini, 1994) che questo suo medium d’elezione non sia in realtà dirimente per la lingua che veicola, che non è in ogni caso limitata o stretta al solo progetto, né custode del mero ‘disegno’ dell’opera. Né è facile intendere quale sia l’alveo di cultura in cui situare questo lavoro: che mi pare comunque, per certo, mosso da impulsi orientati in più direzioni, né così indeclinato al suo interno come è stato talora supposto – e come forse indurrebbe a sospettare la scelta esclusiva della carta e l’opzione prevalente per il formato ridotto del supporto.

   Questa molteplicità d’orientamenti assunti da Gubinelli in una ormai lunga stagione di lavoro giustifica peraltro le lunghe enumerazioni delle esperienze che sono parte del suo asse paradigmatico, e che gli hanno nel tempo trasmesso decisivi impulsi ideativi: da Fontana a Burri, da Klee a Rothko, da Melotti a Licini, da Yves Klein a Carla Accardi … Dalle premesse razionaliste ad una distanza concettuale dalla fabrilità dell’opera, passando attraverso un’astrazione colma di emozioni e ricordi e ad uno sperimentalismo modernista, dunque. E, in aggiunta, dal minimalismo alla filosofia zen, dal surrealismo all’arte segnica. Il ‘troppo’ di memoria di cui talora pare gravato questo percorso (e che, richiamato appunto dalla sua copiosa esegesi, può aver talora pesato sulle spalle di Gubinelli come un fardello difficile da sostenere) è giustificato dunque prima di tutto dalla mobilità della sua pittura: che egli – lungi dall’essere, come una volta è stato supposto, il pittore d’un solo quadro – ha inteso come ricerca atta a sondare modalità e possibilità diverse, delegando solo alla fedeltà alla carta e al segno che parcamente la incide quel rigore di cui pure ha da sempre avvertito l’esigenza.

   Così l’ascendenza, ad esempio, riconosciuta già da Lara Vinca Masini nel ’77, in quella linea che da Fontana porta a Castellani e, diversamente, a Dorazio, è comprovata dalle incisioni su carta dei primi anni Settanta – risalenti dunque all’albore della prima maturità di Gubinelli. Mentre le installazioni e i rotoli su carta trasparente della seconda metà del decennio possono giustificare il richiamo ad una suggestione di Klein, o della Accardi; e i ‘frottages’, anch’essi su carta trasparente,  di metà anni Ottanta hanno talora consonanze con il primo Licini, o con il clima di precoce surrealismo astratto da lui respirato allora a Parigi; Licini che torna, ma ora colto al culmine della maturità e insieme stavolta a Melotti (il Melotti dei ‘Teatrini’ e dei disegni, soprattutto), a invaghire i segni che Gubinelli deposita su tante sue carte degli anni Novanta.

   È il tempo, questo, del colore; un tempo che dura sino ad oggi. Un colore trasparente, acquoreo, come incerto e di sé dubbioso: quasi non sappia fino in fondo la misura di quanto quel colore sarà chiamato a incaricarsi, nella nuova pagina pittorica che esso contribuisce a fondare. Certo, l’ingresso di questo tenue colore d’acquerello allontana definitivamente Gubinelli da quelle tensioni severamente analitiche e rigorosamente programmatiche che ne avevano segnato gli esordi. Il segno che abita adesso la superficie, e che prende a vagarvi inquieto e rabdomantico, pur ancora scritto in prima istanza – come da sempre ha usato – incidendo la carta, si distanzia ormai (ne avvertì lucidamente Giovanni Accame, nel 1993) dalla lezione di Fontana, come da ogni proposito costruttivo (l’abbandono del quale s’è accompagnato al superamento dell’egida geometrica). E lo spazio che da quell’aggrumarsi di segni scavati è generato s’è fatto infine lontano dallo spazio “metafisicamente ingegneresco” di Castellani per avvistarne un altro in bilico fra sogno e razionalità; “per andare di pari passo con la favola senza mai entrarvi dentro, senza mai rinunciare a quegli orizzonti e a quei precipizi liciniani”, come ha scritto Venturoli, nei quali abita ora, felicemente, Paolo Gubinelli.

Fabrizio D’Amico

Roma, 29 Aprile  2012

Biblioteca Civica Queriniana Brescia

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